L'incursione cittadina, definita dall'artista “mistificazione urbana”, ri-crea un dato luogo mediante una cifra stilistica che offre all'ambiente una coscienza individuale atta a sottolineare la creazione di un neo-spazio immaginale in grado di divenire protagonista di un unico progetto, a un tempo, collettivo. Laddove il cineocchio di Dziga Vertov marcava la soggettiva di un mondo cittadino nel quale la vita-era-colta-sul-fatto; laddove le sinfonie delle città espressioniste tedesche scardinavano ogni possibile silhouettes rendendo i contorni fumosi e irriconoscibili; laddove le aspre provocazioni di Bansky restituiscono la certezza di un mondo-che-cambia, i lavori di Andrea Vannini elaborano un linguaggio in base al quale le vie, le piazze, i muri delle città si animano di un'urbanistica spesso ironica, pungente e provocatoria. In ragione di questo il viaggio nei luoghi dell'artista è immersione nei suoi oltre-mondi i quali aprono alla prospettiva di una percezione che non vuole vedere l'arte di strada aggressione a un non meglio precisato “patrimonio pubblico”, bensì – in questo specifico caso, dacché se di Street Art si può parlare è, e deve, comunque rimanere virtuale – universo espressivo che prima di divenire atto collettivo è soprattutto urgenza di necessità intime che dichiarano un'eterna galleria di quadri viventi all'interno dei quali entità materiali e immateriali dialogano tra di loro lasciando all'occhio dell'osservatore le tracce di un writer che ha fatto del suo sotto-passaggio un muro di testimonianze derivate dalla capacità di saper catturare, conquistare, percorrere la città in quello che è un vero e proprio disegno antidocumentaristico. Disegno nel quale l'oggettivo diviene Oggetto, elemento estraneo rifatto e ricreato e infine spacciato come vero. Nel quale (in sostituzione di un graffito su di un muro reale) l'oggetto-corpo è aggiunto e fatto esistere in una sorta di menzogna schizofrenica della realtà.